…e vissero felici e contenti senza la schiena rotta e male alle ginocchia !
È dai tempi di favole sonore che vorrei dare una rilettura personale alla conclusione della storia, che mi ha martellato durante tutto l’arco della infanzia, prima, e dell’adolescenza, poi.
Ma andiamo per gradi. Ognuno di noi ha un proprio vissuto, che ne ha forgiato il carattere, le attitudini, le patologie, inserisco io, sottoforma di percorsi personali fatti di scelte e necessità, in funzione, sostanzialmente, di regole imposte dalla famiglia e dalla società.
Siamo felici (felicità deriva da “fe-“abbondanza, ricchezza, prosperità) finché abbiamo ottenuto un obiettivo, che le regole sociali ci ha imposto. Conosciamo bene la biochimica della felicità, che attraverso i principali neurotrasmettitori e ormoni coinvolti è in grado di trasformare la vita delle persone in un booster potenziante:
Il raggiungimento di un obiettivo, attraverso queste articolate combinazioni, ci garantisce una sopravvivenza attiva. Siamo prosperi, determinati e dinamici, finché il mondo che ruota attorno a noi ci permette di entrare in “sintonia”, come un programma radiofonico spensierato e allegro.
C’è un MA in tutto questo meccanismo fisiologico e, aggiungerei io, potenzialmente patologico di benessere condizionato ed effimero: la “felicità” spesso dipende dal rapporto tra le condizioni oggettive e le nostre aspettative soggettive. In altre parole, sono felice se mi compro quell’auto, se assumo quel ruolo sociale, se riesco a vincere quel torneo di tennis. Quando basiamo costantemente la nostra felicità sul confronto tra ciò che abbiamo e ciò che vorremmo avere entriamo in un circuito di “dipendenza” da obiettivi. Viviamo nel costante paragone con la società, alzando continuamente quell’ipotetica asticella che ci separa dall’essere felici a pieno. Alternativa a tutto ciò è il decadimento dello stato di benessere. Il corpo “ortopedico” lo estremizza in una modalità sopraffine, riducendo una funzione articolare, chiudendo la libertà di movimento, creando degli invisibili confini di espressione articolare. Paradossalmente, un’infelicità è leggibile attraverso una ridotta capacità di utilizzo delle articolazioni, come da privazione di libertà. Una schiena piegata e/o ginocchia che lavorano attraverso un range articolare assolutamente ridotto parlano attraverso un linguaggio di insoddisfazione.
Qual è allora l’alternativa alla felicità, qual è la modalità a questo effimero sostenitore di benessere?
Sentirsi bene con sé stessi, non ambire meramente ad un meccanismo compensatorio, essere cioè contenti.
La parola “contento” invoca il ruolo di sé stessi, come “contenitore” di pienezza. I contenti sono coloro per i quali il benessere nasce dall’interno e non in relazione a tutto ciò che accade al di fuori del “contenitore”.
Vincere il dolore fisico, molto più spesso di quanto si possa immaginare, è riconoscere questo atteggiamento mentale. Il corpo non si smarca da questo sodalizio mentale, anzi è la sua più chiara espressione della macchina della verità. Spesso si parla di trattamenti sintomatici del dolore, di medicina rigenerativa, di procedure terapeutiche integrative attraverso molecole di ausilio a una funzione articolare compromessa, di infiammazione, di acidità del corpo, senza considerare il ruolo dirompente della mente attraverso il braccio armato del corpo.
Tutto questo è ovviamente perseguibile e mantenibile nel tempo, attraverso un costante lavoro su tutti i pilastri del benessere a partire da un iniziale riconoscimento del proprio SE, di un rinnovato senso di gratitudine e di un sostenibile stile di vita. Come spesso ripeto ai miei pazienti, il benessere è libertà recuperata, non è solamente terapia farmacologica.
Ecco quindi che, vorrei concludere la mia storia, reinterpretando la favola della vita, dicendo: sto vivendo la mia vita “libero e contento”, e attraverso il mio corpo posso godere a pieno di questa ritrovata consapevolezza.